a cura di Giancarlo Vianello
Giovedì grasso
Nel 1162 il patriarca aveva attaccato Grado, attirandosi le ire del doge Vitale Michiel, II (1156-1172). Stanato dal Friuli (1163), dove si era rifugiato con i suoi 12 canonici, protetto da alcuni castellani, Ulrico venne catturato e condotto a Venezia prigioniero assieme a tutti gli altri notabili e canonici. Il patriarca riuscì ad ottenere la libertà per sé e per gli altri grazie all’intercessione di papa Alessandro III. Intanto, però, la repubblica aveva fatto radere al suolo i castelli dei notabili. Come risarcimento dell’ottenuta libertà il patriarca si obbligava a far pervenire al doge ogni anno, nel giorno di Giovedì grasso (detto anche Berlingaccio [vedi 1], ovvero la festa ufficiale della Repubblica in Piazza S. Marco nei giorni di carnevale), 12 grossi maiali (simbolo dei canonici), 12 grossi pani (simboleggianti i castellani) e un toro (simbolo dello stesso patriarca), che diede origine alla Caccia dei Tori [vedi 2]. Il Berlingaccio continuò ad essere festeggiato allo stesso modo per secoli finché nel 1525 non venne deliberato di proibire il cerimoniale della conduzione del toro, porci e pane davanti ai giudici, sostituiti da sagome. Per secoli, comunque, andò in scena la stessa parodia allo scopo di ricordare a tutti il ruolo egemonico di Venezia. Luogo deputato, la Piazzetta. Tra le due colonne si celebrava un pubblico processo agli animali mandati dal Patriarca. Espletato il rito del processo, seguivano la condanna e le decapitazioni degli animali fatte da alcuni patrizi, e poi le carni venivano parcellizzate e mandate ai senatori, mentre i pani venivano distribuiti ai carcerati. La parodia continuava in Palazzo Ducale, dove il doge distruggeva i modelli in legno dei castelli dei feudatari friulani a colpi di mazza ferrata.
Quando nel 1420 cessò il potere temporale dei patriarchi di Aquileia, il tributo venne fornito a spese della Repubblica.
La festa era rigorosamente assegnata per appalto ad una impresa: il Berlingaccio si apriva con la sfilata dei rappresentanti delle Arti a cui assistevano patrizi e popolo a testimoniare l’armonia dell’assetto sociale veneziano. Seguivano poi i giochi: prima le forze d’Ercole tra Nicolotti e Castellani, poi le cruente lotte sul Ponte dei Pugni (sostituite nel tempo dal più ‘civile’ ballo della Moresca un ballo militare ritmato a colpi di bastone, sempre più rapidi finché chi non reggeva al ritmo perdeva), quindi il volo del turco; chiudeva la festa lo spettacolo dei fuochi d’artificio che ogni anno dovevano essere diversi. Le attrazioni del Carnevale non si limitavano al Berlingaccio, ma si estendevano a tutta la settimana grassa con la presenza oltre che di saltimbanchi e funamboli, anche di astrologi e chiromanti. Tra i divertimenti privati tenevano banco i festini, la cui tradizione si fa risalire al 1500 quando cominciarono a tenersi feste da ballo nelle case private tanto che dovette intervenire il Consiglio dei X e decretare (1512) la cessazione di quel costume volto a prendere in affitto case private per poter ballare tutta la notte tra uomini e femmine… (ma i festini organizzati dai giovani patrizi, ovvero dalle così dette Compagnie della calza, venivano autorizzati in deroga alla legge del 29 dicembre 1508 che proibiva tutti gli spettacoli pubblici). I festini privati comunque non cessarono, anche se spesso erano causa di incidenti, soprattutto per colpa dei portoghesi che si volevano intrufolare. Nei festini si giocava anche d’azzardo, talché essi erano spesso il pretesto per organizzare la bassetta o altri giochi di carte proibiti. Nel 1638, forse per dare sfogo ai giocatori d’azzardo, fu aperto il Ridotto di S. Moisè (funzionò fino al 1774), proprio per ospitare tutti quei giochi che in privato erano assolutamente vietati. Al Ridotto si proibì l’ingresso delle maschere , peraltro non vietate in chiesa.
[1] Berlingaccio, molto probabilmente deriva da berlina, castigo che si dava ai malfattori, e corrisponde al Giovedì grasso, festa ufficiale della Repubblica che si svolgeva in Piazza S. Marco nei giorni di carnevale e che prese l’avvio nel 1162.
[2] Caccia ai tori, o Cazza ai tori, un antico sport veneziano, una tra le feste più popolari. La caccia si svolgeva nei campi più spaziosi di Venezia. Attorno al campo si alzavano delle tribune dove prendevano posto gli spettatori paganti. Al momento opportuno si faceva scendere sul campo un toro (di fatto un bue), due tiratori, un uomo e una donna (tiradora), che lo tenevano con due lunghe e solide corde legate alle corna della bestia. La loro bravura stava nel trattenere o rilasciare la corda facendo in modo che il toro/bue corresse il più a lungo possibile senza avere gravi danni dall’intervento di un cane che era addestrato ad azzannargli le orecchie: il povero toro usciva dalla giostra con le orecchie mozzate nonostante gli interventi del cavacane il cui compito era di staccare dalle orecchie del toro/bue il cane, schiacciandogli le mandibole o mordendogli la coda. Rimasero famose le cacce organizzate nel Settecento, soprattutto quelle in onore del re di Danimarca (1709) e dei Duchi del Nord (1792). L’ultima caccia ai tori si svolse il 22 febbraio 1802 in Campo Santo Stefano. Quel giorno uno dei tori fuggì alla presa dei tiratori e salì sulle gradinate, seminando il terrore e provocando molti feriti e contusi. Il governo austriaco vietò la caccia ai tori per sempre.
Da Enciclopedia Storica di Venezia di Giovanni Distefano.